Giorgio e la sua Maratona dles Dolomites

Quando Giorgio mi chiese di condividere il racconto della sua avventura sul mio blog, non ho esitato un attimo, ho accettato subito.

Giorgio, oltre che essere un grande amico, lo considero un “gemello”, infatti abbiamo la stessa passione per il titanio ma soprattutto per la stessa marca, la Rewel!

Ora però, non voglio aggiungere altro, lascio spazio alla sua ultima avventura sulle magiche Dolomiti. E se volete seguirlo sui social network potete farlo sul suo profilo Instagram:

https://www.instagram.com/tonnoapedali/

Caro Giorgio, ti auguro che questo sia il primo di una lunga serie di racconti!

MARATONA DLES DOLOMITES, UNA CRONACA DEL CUORE

Uno può gasarsi.

Capita, nella vita. In quella del ciclista-amatore quando pensa “ma io sono qui a sfacchinare sulla stessa strada di Bartali e Coppi” e intravede sotto l’asfalto di un tornante del Pordoi, sotto il manto di usura, i cubetti di porfido della loro epoca e, ancora, se immagina che una goccia del proprio sudore sia caduta nello stesso punto di una di quelle del lieve Fausto, o su cui precipitò come grandine quella del Ginettaccio.

E accade ancora quando il  suo “tubolare aperto” morde la graniglia dell’asfalto in uno dei pochissimi fuori sella che il Giau concede: rumore di gomma e risuonare del cerchione  a onde metalliche regolari fin quando non si torna a sedere. Nel caldo, malgrado i duemila metri: così, all’unica fontanella sulla strada molti si tuffano si tuffano quasi nella vasca. Con la testa sotto l’acqua, come al tempo di quei due là, e io pure.

Di nuovo nel frastuono della discesa a bomba da lì e dalla Val Parola. Ed è meglio non divulgare le velocità toccate, sennò ti mettono il catenaccio alla bici. Sì, però con un po’ di cura alla fine, perché l’acqua lì in discesa l’hai presa, non molta: a secchiate, invece, a Corvara appena passato il traguardo: si festeggiava!

Sì il ciclista può gasarsi. Anzi, tu puoi gasarti.

Puoi gasarti quanto vuoi. I giganti immobili. Le cattedrali, i cento duomo-di-milano (che diventa una chiesetta di campagna) sovrastanti il tuo passo da formicone panciuto. Le pareti a picco, le guglie, ghiaioni e ancora discese, boschi, prati e alpeggi. Tanti. Tanti gli abeti schiantati dal tornado di ottobre scorso, enormi ferite non sanate e forse lo saranno quando io sarò stravecchio o traslocato altrove, più in alto delle Dolomiti.

Ma la pietra in tanta severità è rosa. Giganti vestiti a festa. E non è il Giro d’Italia: è solo la Maratona dles Dolomites. Hai detto poco! 

Il flusso dei 9.000 partecipanti, selezionati fra 33.000 richieste è come un fiume che, però, risale se stesso ad ognuno dei passi invece di scorrere dritto verso la foce.  Così, quasi ristagna sui primi tornanti del Campolongo alla partenza. Magari ha la pretesa di essere parente di quello che scavò nei mille millenni quel fondo marino oggi montagne. Già: siamo al mare e in montagna contemporaneamente.

Allora, forse, tu puoi nuotare, fino alla riva del traguardo.

Puoi nuotare nella luce. Con paletta, secchiello e bicicletta tra le conchiglie fossili, nonostante gli occhiali fighi da bici, le lenti non ce la fanno a trattenere tutti i raggi dell’universo dal consegnarti la radiografia della tua fatica. Anzi, di quella mia: sul Campolongo due volte, dopo il Pordoi, il Sella e il Gardena, passando verso le 11,20 in località Cernadoi. Lì il fiume si divide in due. E prima di risalire ancora, sosta in un’ansa. Volti preoccupati: di certo, il mio. Siamo a metà giro, e da lì non si torna indietro.

Per me era iniziata con la gomma anteriore sgonfia, rinvenuta così la bici dall’hangar della pensione ladina a Badia sperando di volare verso il traguardo. Massì! Cambio a tempo di record della camera d’aria, volata per entrare in griglia, l’ultima quella dei comuni mortali. Sta per tuonare il cannone. Stessa ruota, altro  afflosciamento: anzi, m’affloscio anch’io e tuona il cannone del “via!”.

Mi invento un nuovo duathlon, lì a La Villa: “corsa di ciclista con tacchette e scarpe nuove di pacca trascinante bici e ricerca attenta del primo soccorso meccanico.” Trovato, ancora assonnato mi guarda il meccanico stupito mentre gli dico che ho bucato due volte, da fermo la prima e la seconda nel giro di due km.  Mosso a pietà, smonta, sostituisce, rimonta, controlla, mi congeda, mi impartisce la sua benedizione, fa un esorcismo al copertoncino, lo caccia il demonio dalla ruota e mi saluta con uno sguardo paterno: mi sento amato.

Ma così è la vita, avendo perso i miei compagni, rassegnato a sentirmi solo fra migliaia. Terminato il Campolongo invece una voce mi richiama. Quella di Davide con Giorgio da Moncucco di Vernate, da cercare sulla carta, luogo dove sparare cazzate è un’arte. I moncuccati mi fanno da traino, sono la mia squadra. Con Davide al primo km. del Sella, fra i tanti, incrociamo uno con bicicletta gialla e cassa: cassa acustica per musica a palla. Araba. Che ci fanno i lamenti o i gorgheggi tipici del genere sulle pendici dolomitiche? E che effetto producono? Eh, bisogna chiederlo al fiammingo Van Xxxxxxx che scatta come Merckx dopo che il Davide gli sussurra “intifada”.

Alla Maratona il nome di chi corre con te è stampato a chiare lettere sul numero che porta sulla schiena, insieme alla bandierina della tua nazionalità. Perciò, cercherò poi Van Xxxxxxx in classifica generale alfabetica per scoprire che sotto la lettera V tutti tranne pochi si chiamano Van Qualcosa. Maratona internazionale, eh! Veramente, tutti i continenti sono rappresentati. E il pensiero va ai dolci declivi della Martesana Van Vlaarderen, ai cari cobbles in cui credere: dall’Adda all’Adige senza soluzione di continuità. E sarà così, quando i 350 metri del Mur del Giat diverranno in 2’35” quelli del Mur del Vadavialcù.

Già! Qui lo spirito del Trittico si fa vivo: pensavate di intimorire il ciclista appesantito? Il Pianetti è con me e grazie al 34×34 salgo con la grazia madness della Carla Fracci. Eppoi, scusate, ma il puro titanio della mia Rewel respira aria di casa e dà il meglio di sé.

Era così che ci vollero poco meno di cinque ore per giungere al bivio fatale.

Cernadoi, appunto: ero lì, tonno a pedali, a prendere il fiato prima di risalire la corrente verso la deviazione del lungo. Mi sarei sentito più salmone che tonno, se non fossi stato un po’ preoccupato.

Alla Maratona tu puoi nuotare, io posso nuotare, io ho nuotato.

Me lo sono detto perché se anche minacciava pioggia avevo la mantellina. Se non basta la mantellina, mi dicevo “chissenefrega a maggio a Selvino ho preso la neve e siccome gli ultracycler dicono che è solo questione di testa (vabbè…) farò a meno delle gambe e userò le pinne. Tanto siamo al mare”.

Risalivo e discendevo, risalivo e discendevo. Scambiando qualche parola col mio quasi omonimo, colui che è prima di me nell’ordine alfabetico della classifica incontrato sul secondo Campolongo: un tipo serio, tosto, alla ventitreesima edizione. A lui devo la decisione della svolta per il percorso lungo: “il Giau, il Falzarego, la Val Parola sono duri, eh sì” detto con tono pacato e parlata veneta. Siamo coetanei quasi. Quest’anno però deve restare sul percorso medio. Mi racconta. Non ci siamo mai visti prima in tutta la storia dell’universo: il suo rammarico lo raccolgo per farne la risorsa di una rivalsa; un po’ come se mi cedesse il suo credito. E lo ringrazio.

Un abbraccio lo mando pure al maestro di sci inglese che, biascicando io parole mozze en français e sfiatate, attacca bottone per via del metallo – Van Nicholas – del suo mezzo, amici di titanio affiancati pure da un terzo telaio di Mr. Crisp. Abbiamo faticato insieme, titanicamente.

E Magnus? Se io tonno, lui capodoglio.

Che in fretta si perde all’orizzonte. Non sapevo che un attempato svedese da un quintale a occhio potesse, così, spianare salite con la sua maglia con fascia rossa sulla panza e coscioni da prosciutto di San Daniele. Ok, l’invidia non è una virtù.

Però, il sorriso garbato e ironico di Sara sotto il suo caschetto nero mi rimarrà negli occhi per tanto, come per le molte altre sue colleghe scalatrici. Sono più belle le Dolomiti o le ragazze in bici?

Alla fine, possiamo anche crederci. Ho fatto il giro delle Dolomiti. Ho pedalato su e giù. Anzi, o su o giù. Mai in orizzontale, fino al porto sicuro dell’approdo, la medaglia, il presidente Michil Costa che accoglie noi, fra gli ultimi all’arrivo cortese e ladino – già la parola suona dolce, come un latino senza retorica e pacato, terso come il cielo terso e fresco dopo il temporale.

Me la merito la birra dopo la traversata in ore 8 e minuti 51, comprese pause di sovralimentazione tra cui due panini imbottiti, tot biscotti-barette-frutta-banane, sali e maltodestrine? Ma perché non anche la macchina del caffè, dico io!

Ma gli amici di Moncucco, pur deviati per il medio, non si scordarono di me. Mi vennero incontro con i miei sandali modello Bartali temendo per la mia salute nel risalire alla pensione in cima all’erta canina. Rifiutai, non era necessario. L’amatore che c’è in me ama più un finale col do di petto e di pedale, che di ambulanza. Perciò, sipario. Ti sei gasato abbastanza.

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